Denunciai la ‘ndrangheta ed ero sul punto di farla finita. Poi i carabinieri mi dissero: accenda il televisore, l'incubo è finito

24.04.2023

La storia dell'imprenditore piemontese Mauro Esposito


Francesca Angeleri

«Io credo fermamente nelle scelte che ho fatto e nella denuncia, però se dovessi consigliare a qualcuno di affrontare questo supplizio, prima gli direi di trattare con i suoi estorsori cercando in loro la pietas cristiana, chiedendo loro quanto costerebbe la sua serenità, quanto dovrebbe pagare per salvare la sua vita e quella dei suoi cari e sono certo che se riuscissero a giungere a un accordo, questo accordo i delinquenti lo onorerebbero. Lo Stato no. Lo Stato promette e poi ti tradisce». Questo estratto, molto duro, fa parte di un'antologia di prossima uscita, La tazzina della legalità, che racchiude le testimonianze di personaggi tra cui Pino Masciari, Klaus Davi, Rositani, Silvis, Suor A.M. Alfieri, Ruggero Pegna. Lo scrive Mauro Esposito unico imprenditore piemontese a denunciare, sua sponte, la 'ndrangheta. I fatti sono noti. È già uscita una sua biografia, Le mie due guerre, in cui narra un'epopea atroce tra la malavita organizzata e l'enorme difficoltà di rimettere insieme una vita avendo contro una burocrazia statale senza scampo. Esposito oggi è un uomo provato ma che ha trovato una strada per la rinascita.


Nell'immagine l'imprenditore Mauro Esposito

Come sta?
«Non ho più paura di niente. L'altro giorno mia figlia si è laureata in Ingegneria con il massimo dei voti. Mio figlio ha patito di più. Mi ricordo quando mi supplicava di andare a vivere in Svizzera».

Adesso è forte, ma prima?
«Sono stato un uomo distrutto. Per anni non sono riuscito a guidare. Non dormivo. Avevo attacchi di panico continui, tachicardie, flash notturni. Dopo cena, come a una certa ora le zanzare d'estate, tiravo un sospiro di sollievo. Poi ricominciava tutto. All'una prendevo lo Xanax, la mattina gli psicofarmaci. Come molte altre vittime di mafia mi è stata diagnosticata la sindrome da ansia post traumatica da stress per la quale dovrei avere un risarcimento che non ricevo, nonostante lo Stato abbia perso una causa che gli impone di pagarmi».

Di quella paura ha ancora degli strascichi?

«Quando i miei figli rientrano, la sera, il momento peggiore è tra la macchina e la porta di casa. Fino a quando non la sento chiudersi non respiro. Gli psicofarmaci però, una mattina li ho gettati via. Grazie all'analisi e a un chiropratico».

Il momento peggiore?
«Il 2014. Stavo perdendo tutto, avevo i conti bloccati, le proprietà pignorate, non ci capivo più niente. Andai da un noto avvocato torinese. "Lei è un bancarottiere — mi disse — la smetta di dirmi delle balle. A insinuare della mafia. La colpa è sua". Mi umiliò. Era sopra Platti, andai nel bagno del Caffè e vomitai. Ero a pezzi. Poi tornai in ufficio con la certezza che la mia vita era chiusa. In quell'istante ricevetti una telefonata dei Ros: "Accenda il televisore, il suo incubo è finito"».

Nell'immagine l'imprenditore Mauro Esposito durante il meeting organizzato dalla Tazzina della Legalità "100 PASSI xcorso legalità", tenutosi presso Hotel Guglielmo di Catanzaro 24 Febbraio 2023

Cosa stava accadendo?
«Era partita l'Operazione San Michele che coinvolgeva varie famiglie del Canavese. Io avevo denunciato. Avevo tutti i giornalisti fuori di casa. Chiamai il "principe del foro" che si vergognò al punto che non si fece passare».

È una vicenda complessa in cui lei punta molto il dito contro lo Stato. Perché?
«Non ce l'ho con il giudice che mi ha condannato (nel 2013 venne condannato per esercizio abusivo della professione, il magistrato si rifece a una legge di Mussolini — che in verità era stata abrogata — che vietava alle società di ingegneria di lavorare per i privati) voglio credere nella buona fede. Ma quando un giudice sbaglia, dovrebbe essere lo Stato a risarcire. Invece, fa a gara per trovare un vizio formale pur di non pagarti. La mia vicenda è una sequela di errori della Pubblica Amministrazione in ogni sua forma».

Lei è molto severo.
«Chiunque abbia a che fare con il sistema della 'ndrangheta e la denuncia, pagherà con lo Stato un conto salato».

Non salva niente e nessuno?
«Devo tutto ai carabinieri, alla Procura della Repubblica, ai giudici penali. Mi hanno salvato la vita. E non solo dalla mafia. E anche a Pino Masciari, a Libera e a Legalità Organizzata».

Ha pensato mai di farla finita?
«I giorni successivi la sentenza civile che mi ha visto soccombere contro quei tizi che verranno arrestati pochi mesi dopo per associazione mafiosa grazie alle mie denunce. Era il 23 dicembre, ero alla Parrocchia della Beata Vergine in Crocetta. Vedevo 'ndrangheta dappertutto, ma non ero pazzo. Avevo bisogno di parlare con qualcuno che capisse cosa mi stava accadendo. Maurizio Corgo era un sostituto commissario e una persona di cui mi fidavo. "Devo riferirle alcune cose". Mi raggiunse al caffè Piazzi, seppi solo dopo che aveva lasciato sua figlia in macchina oltre un'ora per parlare con me. Ero sull'orlo di buttarmi dal ponte. Al posto della tombola in famiglia era lì che mi rassicurava: "Deve avere fiducia nella giustizia, creda nelle forze dell'ordine". Me lo ripeté almeno dieci volte».

Punti di svolta?
«Renzi premier che prende in mano la questione della legge di Mussolini dichiarando la "mia sentenza" un abbaglio giudiziario. A lui, alla Bonomo, a Stefano Esposito e a Davide Mattiello sarò sempre grato; Milena Gabanelli che mi chiama al telefono, una scintilla. Oggi mi fido moltissimo del sottosegretario di Stato Alfredo Mantovano, uomo di grandissimi valori e di Giacomo Portas che mi ascolta e consiglia come un fratello maggiore».

La sua vita prima di tutto questo?
«A colori. Mio padre faceva il benzinaio, io ero riuscito a mettere in piedi una tra le società di ingegneria tra le più quotate al mondo. Avevamo cantieri in Oman, a Dubai. Stavamo addirittura meditando di comprare un aereo, ci sarebbe convenuto tanti erano i voli che prendevamo».

Ce l'ha ancora un sogno?
«Vorrei diventare parlamentare per occuparmi delle cose che conosco bene. Il problema non è solo la malavita, tutto nasce dall'inefficienza della burocrazia e dalla mancanza di coraggio di fare le scelte giuste. Che non si fanno perché la politica è un'eterna campagna elettorale e quelle sono cose che poi non ti fanno rieleggere. Mi cercano poco perché la verità non la vuole nessuno».

Faccia un esempio.

«Mi appello a due persone che stimo molto, al sindaco Lo Russo e alla vicesindaca Favaro, che ha la delega alla legalità: non ci sono gru in città, i grandi investitori se ne vanno. Il nostro sistema burocratico è irrispettoso e questo è un territorio ideale per far crescere l'illegalità. È folle che non si riescano a ottenere permessi se non in tempi biblici. In un sistema come questo, troverai sempre qualcuno che ti propone una strada alternativa. Sempre più, denunciare è una cosa che si possono permettere solo i ricchi. Le regole prima di tutto deve rispettarle chi gestisce la cosa pubblica».


Articolo di Francesca Angeleri - tratto integralmente da corriere.it

 - https://torino.corriere.it/notizie/cronaca/23_aprile_24/denunciai-la-ndrangheta-ed-ero-sul-punto-di-farla-finita-poi-i-carabinieri-mi-dissero-accenda-il-televisore-l-incubo-e-finito-8b291b57-ff52-48ef-ace7-b023ba4b2xlk.shtml